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Per contatti e informazioni: giulio.levi@gmail.com
Recensioni
1. Venditempo (Orecchio Acerbo Editore, 2004)
2. XJ7K – dallo spazio alla casa bianca (Falzea editore, 2005)
3. Storie del 3° millennio (Campanotto editore, 2006)
4. Maghi, pesci, scarpe parlanti…in 10 storie fantastiche (Einaudi scuola, 2006)
5. 1940 / 1945 Gioele, fuga per tornare, Fatatrac editore, 2007
6. Nebbia di streghe (Falzea editore, 2008)
7. La mia mamma guarirà (Falzea editore, 2008)
8. Salviamo il mondo (Fatatrac editore, 2009)
9. Il grande pesce d’argento (Fatatrac editore, 2010)
10. Millelire (Coccole e Caccole editore, 2011)
11. “Eravamo ragazzi” (Fatatrac editore, 2014)
12. Una vita sospesa 1938-1945 (Castelvecchi editore, 2016)
13. Il regalo magico (Coccole Books 2020)
14. La straordinaria storia della penna a sfera – da László Bíró all’impero Bich

La straordinaria storia della penna a sfera – da László Bíró all’impero Bich

Dal blog di Armando Adolgiso
lunedì, 29 marzo 2021

“La necessità è la madre delle invenzioni.”
Platone 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C.
Uno che d’illuminazione se ne intende, Thomas A. Edison, così diceva: “Non ho mai fatto niente che valesse la pena di fare per caso … quasi nessuna delle mie invenzioni è stata sviluppata in questa maniera. Le ho conquistate allenando me stesso a essere analitico, a resistere e a sopportare il lavoro duro”.
L’inventore di cui si parla nel libro edito dalla casa editrice Diarkos che presento oggi ben s’attaglia a quelle parole di Edison. E anche l’uomo che di quella invenzione ne ha fatto una maiuscola società internazionale che fornisce tutti i paesi di questo pianeta.
Tanti in tutto il mondo abbiamo usato quel manufatto, tanti vi abbiamo giocherellato durante tediose riunioni, Levi ha il merito di condurre la storia di quel piccolo oggetto, la penna a sfera in modo avvincente attenendosi a una ricostruzione rigorosamente storica senza romanzerie. Inoltre, non trascura l’ambiente sociale e politico in cui si svolge la narrazione in anni in cui la persecuzione antisemita nazifascista dapprima fa la sua quasi timida comparsa per poi progressivamente mostrare la sua faccia più feroce ed assassina.
Non starò qui a raccontarvi le tante traversie trascorse dall’ungherese László Bíró (Budapest 1899 – Buenos Aires1985), i suoi tanti mestieri fatti (compreso l’ipnotista), i suoi tanti incontri e scontri perché toglierei gusto al lettore di scorrere le pagine. Né, per le stesse ragioni, lo farò con l’altro importante personaggio nominato nel sottotitolo: Marcel Bich (Torino, 1914 – Parigi, 1994) che dopo un’iniziale diffidenza verso quel tipo di penna si slanciò con tutta la forza del suo notevole ingegno nella produzione di quello strumento di scrittura facendolo affermare nel mercato mondiale superando anche rischiose, per lui, vertenze giudiziarie.
Bíró, a causa della sua incapacità di gestione imprenditoriale, a differenza di Bich non si arricchì con i guadagni della sua invenzione, gli è stato dedicato l’asteroide (327512) Biro, scoperto nel 2006.
Bich, un genio nell’organizzazione aziendale, ebbe 11 figli, di cui quattro hanno ricoperto incarichi di rilievo nell’azienda Bic. Sul muro della casa torinese di Corso Re Umberto 60 in cui Bich nacque. una targa lo ricorda come colui che “semplificò la quotidianità della scrittura”.


Da Umbriaecultura 17 Aprile 2021
recensione di Benedetta Tintillini

E’ sicuramente tra gli oggetti di uso comune più diffusi al mondo, ne intuiamo la tecnologia ma non ne conosciamo la storia: è la penna a sfera.
Dedicato a tutti i curiosi il libro “La straordinaria storia della penna a sfera”, scritto da Giulio Levi per i tipi di Diarkos. Dopo pennino e inchiostro e l’affascinante stilografica (per non indietreggiare troppo nel tempo) negli anni ’60 del secolo scorso entra nelle scuole, nelle case, negli uffici di tutto il mondo ciò che ora si chiama ufficialmente la Bic Cristal.
Semplice nella sua concezione: non si tratta altro che di un tubetto di plastica trasparente, dentro il quale un altro tubetto contiene inchiostro liquido, che grazie ad una piccola sfera di metallo traccia il segno sulla carta con estrema facilità. Ma facilità non significa semplicità: l’idea apparentemente semplice quanto rivoluzionaria ha conosciuto anni e anni di tentativi, delusioni, guerre commerciali, conquiste esaltanti e sconfitte clamorose sconvolgendo la vita di quattro uomini e cambiando il quotidiano di tutti gli abitanti della terra.
Da Laszlo Biro, ungherese, che per primo ebbe l’intuito della tecnologia necessaria per produrre un brevetto che agevolasse l’attività di scrittura evitando “tragiche” perdite di inchiostro e macchie irreparabili sui documenti, pur non essendo il vero e proprio autore dell’invenzione passando per Andor Goy e Milton Reynolds (lascio al lettore la scoperta del loro ruolo nella storia dell’evoluzione della penna a sfera) fino a Marcel Bich.
Non è molto noto, infatti, ma c’è anche un pezzettino di Italia nella storia della penna a sfera: Bich infatti è stato un imprenditore italiano (naturalizzato francese) grazie al quale la penna ha acquisito il suo nome commerciale e si è diffusa in tutto il pianeta.
Grandi drammi personali, vittorie e sconfitte, fortune accumulate, sfiorate, sfuggite fanno parte della storia, breve ma intensa della penna che tutti usiamo e che, con pochi centesimi, ha rivoluzionato la scrittura.

 

Da DOPPIOZERO 18 aprile 2021
Estratto dalla recensione di Marco Belpoliti

Biro: “nome commerciale di penna a sfera”. Così laconicamente in un dizionario. Certo c’è una voce Wikipedia piuttosto ricca, ma la storia di questa penna è assai più complessa di come viene di solito raccontata. Un neuropsichiatra oggi in pensione, Giulio Levi, ha avuto la pazienza di ricostruirla attraverso documenti, libri, email scambiate con gli eredi di László Bíró, collegandola come necessario alla vicenda del Barone Bich, l’uomo che ha sfruttato con maggior successo economico l’invenzione del giornalista ungherese. Il frutto delle ricerche di Levi s’intitola La straordinaria storia della penna a sfera (pp. 134, Diarkos, 12 euro) ed è stato pubblicato da poco. Che cos’è questo oggetto così presente nelle nostre scrivanie, borse e astucci, che ha modificato radicalmente l’attività della scrittura, ma a cui dedichiamo ora sguardi distratti? “Un tubicino esagonale di cinque per trentacinque millimetri di plastica trasparente, con dentro un altro tubicino di plastica pieno di un liquido pastoso colorato, nero o di un altro colore. All’estremità di questo è infilato un piccolo cono di ottone sul cui apice è incastonata una piccolissima sferetta di metallo che, fatta scorrere su un foglio di carta, lascia una traccia che non macchia, perché si asciuga subito”. Come precisa Levi questa è la Bic, un oggetto che oggi ha un valore commerciale di 20-25 centesimi, pari a un quarto di caffè, a una sigaretta o al sesto di un biglietto dell’autobus. Per raggiungere questa forma quasi perfetta sono occorsi venti anni di lavoro, vari fallimenti commerciali, procedimenti legali, sofferenze e dispiaceri vari.

Il principale protagonista della storia, il cui nome è entrato nella nostra vita, si chiama László József Bíró, ritenuto l’inventore dell’oggetto per scrivere più portatile e leggero del mondo, il più diffuso “artefatto cognitivo”, secondo la formula adottata da Donald A. Norman in Le cose che ci fanno intelligenti (Feltrinelli).  Con il suo libro il neuropsichiatra ha fatto uscire dall’ombra in cui giacevano da molti decenni alcuni straordinari personaggi, a partire naturalmente da László Bíró. Se questi non si fosse messo in testa di realizzare questo strumento cognitivo, la penna oggi non esisterebbe; tuttavia ci sono almeno altri tre personaggi che sono stati partecipi di questa avventura in modo importante.

Il primo si chiama Andor Goy, ed è il socio ungherese di Biro; il secondo si chiama Milton Reynolds, uno spregiudicato imprenditore americano, e infine Marcel Bich, un industriale geniale, nato a Torino, valdostano di origine, il cui nome è legato oggi agli oggetti “usa-e-getta”, a suo modo anche lui un geniale creatore di formule, prima ancora che di oggetti: la comunicazione prima di tutto.  Partiamo da László Bíró. Nato a Budapest nel 1899, l’anno in cui Freud stampava L’interpretazione dei sogni, era figlio di un ebreo e di una cristiana.  Dimostrò ben presto capacità d’inventore, migliorando una penna stilografica inventata dal padre, brevettando una lavatrice nel 1928 e un sistema di posta elettromagnetica, poi un cambio automatico per motociclette e automobili, e diverse altre cose. Inventore sì, ma senza il bernoccolo per gli affari, cosa che gli mancò per tutto il corso della vita.

Per farci capire che tipo era Bíró, Levi racconta che la sua invenzione del cambio automatico fu venduta alla General Motors di Berlino; l’azienda gli mandò un contratto con un consistente anticipo mensile sulle vendite per cinque anni. Bíró lo firmò, ma non si rese conto che questo era un modo per impedire che proponesse ad altri il cambio automatico, poiché la GM stava realizzando un sistema simile. Pertanto non fu prodotta nessuna auto con la variazione pensata da Bíró. Nel libro di Levi sono raccontati aspetti della vita dell’inventore ungherese come quello che riguarda il suo spiccato talento pittorico. Le vicende del periodo complicarono tutto in Ungheria e nell’intera Europa, e Bíró cominciò a pensare di emigrare dal paese in quanto ebreo seguendo un amico che si era già rifugiato a Parigi.

A questo punto entra in scena Andor Goy, un industriale con una ditta di cento dipendenti che ripara macchine da scrivere. Anche la storia di Goy meriterebbe una narrazione a parte, come quella di molti personaggi della Mitteleuropa tra le due guerre. I due riuscirono a trovare un accordo commerciale che concedeva a Goy l’esclusiva della produzione della futura penna per Ungheria e altri dieci paesi europei. Per rendere ancora più complessa la storia, ecco una bella ed elegante signora svizzera [Maria Pogany] appena divorziata conosciuta nello studio del fratello dentista. Parlando con lei dell’invenzione, cui stavano lavorando, la signora propose a entrambi i fratelli di trasferirsi a Buenos Aires, dove lei stava per emigrare, al fine di realizzare l’oggetto grazie ai suoi finanziamenti. Nel medesimo periodo incontrò un altro personaggio, Augustìn P. Justo, ex presidente della Repubblica argentina. Justo lo invita ad andare a Parigi a sue spese e da lì a trasferirsi in Argentina, dove, gli dice in modo convincente, non soffiano venti di guerra e sono assenti le leggi razziali contro gli ebrei. A questo punto Bíró pensa di recarsi prima di tutto nella capitale francese.

Tuttavia arrivarci non è facile. Il suo primo socio, Goy, non è però dell’idea che lui se ne vada. Ha infatti già siglato un accordo con una azienda tedesca, la Dfw, che lavora per il governo nazista al fine di rifornirlo di penne a sfera. Giulio Levi riferisce il dialogo concitato tra Goy e Bíró: il primo non vuole lasciarlo partire, dato che la produzione per i tedeschi deve iniziare di lì a poco.

Le pagine dedicate da Levi alla permanenza parigina di Bíró sono argute e ci portano dritte verso un personaggio che avrà un certo peso nella sua fuga verso il cono sud dell’America. Allora le conoscenze si facevano ai tavolini dei caffè. L’uomo si chiama Michel-Mairie Bouchonnet e probabilmente è ammanicato con i servizi segreti francesi. Bouchonnet lo piazza in un laboratorio a lavorare, mentre Bíró spera di ottenere per suo tramite un permesso di soggiorno in Francia. L’agente segreto, o presunto tale, si dimostra un prepotente. L’inventore è completamente nelle sue mani. Sempre al caffè conosce un altro ungherese, G. J. Meyne, che lo aiuterà in vari modi e poi andrà con lui in Argentina. Bouchonnet lo costringe a mettere in piedi una produzione di bombe incendiarie per l’esercito francese. A salvarlo sarà Maria Pogany che risponde a un suo telegramma e gli invia mille dollari e il biglietto per la nave Barcellona-Buenos Aires,. La guerra si sente nell’aria e anche Bíró insieme con Meyne, che ha congiunto il suo destino all’inventore, cercano di arrivare in Spagna. Non sarà agevole perché alla frontiera i gendarmi franchisti scambiano il giornalista ungherese per un suo omonimo, un antifranchista ricercato.

Per fortuna riescono a entrare in Spagna dopo molti patemi e ansie. Per arrivare in Argentina trovano solo una nave da crociera privata.  Viaggio avventuroso con vari sbagli di rotta, tuttavia alla fine arrivano a Buenos Aires. Bíró è seriamente preoccupato: e ora cosa succede? S’era fidato della bella signora incontrata nello studio del fratello.  In realtà Maria e il marito sono sull’orlo del fallimento e confidavano nel ritrovato di Bíró per risollevare le loro sorti finanziarie. Ancora una volta il destino dell’inventore è affidato a dei contratti firmati davanti a un notaio: il protocollo di intesa non è favorevole al nostro inventore, mente fertile, senza dubbio, ma del tutto inadatto a contrarre impegni societari. Del resto, così come lo descrive sin dalle prime pagine Giulio Levi, la sua personalità appare sviluppata nell’ordine dell’invenzione ma non in quella della commercializzazione. La guerra durerà diversi anni. L’ebreo László Bíró è in Argentina e ha in tasca i progetti della sua prodigiosa penna, ma non l’ha ancora realizzata.

Di tentativo in tentativo il progetto prende forma, con Maria Pogany che entra in ogni dettaglio della produzione rendendo faticoso il lavoro. Resta il problema per Bíró di far arrivare in Argentina la propria famiglia. Maria non vuole anticipare il costo del viaggio. Siamo nell’estate del 1941 e giungere sin lì non è certo facile: dopo quaranta giorni di viaggio, mare compreso, i famigliari si ricongiungono con lui, nonostante l’arresto del fratello come presunta spia alle Barbados. E la penna? A questo punto l’oggetto è pronto per essere brevettato. Ma con che soldi si potrà produrlo? Si fa avanti la Philips, ma poi l’Olanda viene occupata e i tedeschi utilizzano lo stabilimento Philips per produzioni belliche.

Meyne, che fu il compagno essenziale di Bíró nella commercializzazione della sua creatura, organizzò la campagna di lancio in Argentina e intuì subito le potenzialità del mercato sudamericano. Questa vicenda ci fa capire come il successo o l’insuccesso di un oggetto innovativo così immediato e “semplice” sia affidato ad eventi stocastici, e insieme come dipenda enormemente dal fattore umano, ovvero dagli incontri e dalle relazioni tra persone. Un banchiere inglese, H. G. Martin segnalò l’oggetto di Bíró alla Royal Air Force che ne ordinò 30.000 pezzi, poiché questo tipo di penna poteva essere usata anche in volo senza perdite di inchiostro o macchie.

Martin quindi entrò in società e immise nuovo capitale; Maria Pogany e il marito si presero la fetta maggiore dei soldi. La conclusione fu avvilente per Bíró. Bíró scrive nella sua autobiografia che oramai aveva imparato che della sua invenzione non avrebbe ricevuto che briciole; nonostante questo aveva però avuto “la soddisfazione del successo dell’invenzione, una soddisfazione che gli altri non possono avere”.

La storia non finisce qui. A quel punto entra in scena uno spregiudicato imprenditore americano Milton Reynolds. Qui siamo nel campo delle imitazioni, ovvero dei modi per aggirare un brevetto. Reynolds intuì genialmente la natura di gadget che si celava nell’oggetto-biro. Come disse per lanciare la sua versione della penna a sfera, la gente, liberata dalle preoccupazioni della guerra, era pronta a spendere trovandosi di fronte a un oggetto tutto nuovo, che poteva funzionare non solo come un regalo, ma anche come un segno di “ben tornato” per figli, fidanzati e mariti che rientravano dai fronti della guerra. [Negli Stati Uniti] Reynolds anticipò la biro di Bíró prima del suo lancio. “Reynold Rocket” era il nome commerciale con cui la battezzò. Lo slogan era pronunciato da una ragazza col vestito svolazzante: “Got a rocket in your pocket?”. C’era anche un motivetto musicale e una canzoncina.

Intanto nel 1950 il barone italofrancese Marcel Bich aveva messo in vendita la sua Bic Cristal. La sua storia meriterebbe un racconto ulteriore.  Nato a Torino nel 1914, discendente del sindaco di Aosta fatto Barone nel 1841 da Carlo Alberto, aveva vissuto in Spagna e poi a Parigi a partire dal 1925. Per via degli affari sbagliati del padre, ingegnere e aspirante imprenditore, non fece neppure l’università, ma non si perse mai d’animo. Era fermamente convinto che sarebbe diventato ricco, ed ebbe ragione. Studiò con i suoi tecnici – aveva una piccola fabbrica in cui produceva pennini – i problemi irrisolti della penna a sfera: pasta inchiostro e aspetti meccanici (serbatoio, punte metalliche e sferette).

Dopo due anni di lavoro Bich lanciò il suo modello: la Bic Cristal. Sembra impossibile che la comune penna a sfera, quella che spesso non consideriamo quando la prendiamo in mano per una firma in un ufficio pubblico abbia avuto una elaborazione così lunga e complessa. Bich si vide arrivare una citazione da Martin, padrone di brevetti del lavoro di Bíró, e in tribunale perse; fu condannato in prima istanza a pagare un milione e mezzo di franchi alla Biro Patente, l’azienda che ne aveva la proprietà; gli furono pure confiscate tutte le Bic Cristal prodotte e depositate nei magazzini.

Il Barone non si perse d’animo e partì nottetempo da Parigi per Zurigo dove sapeva si trovava Martin, prima della seduta di appello che avrebbe definito il tutto per sempre. Il risultato fu un accordo. Mi fermo qui, perché ci sarebbe da raccontare la storia di Andor Goy nella Ungheria comunista con i suoi contratti firmati da Bíró prima della sua fuga a Parigi e poi quella di Milton Reynolds e ancora del Barone Bich dopo la penna a sfera, compreso il suo rasoio-usa-e-getta.

Bíró  divenne un personaggio noto nel nuovo paese d’adozione: morì il 24 ottobre 1985, e ogni anno il 29 settembre, suo giorno di nascita, in quel paese si celebra la “giornata degli inventori”. Nel 2006 gli è stato dedicato un asteroide scoperto quell’anno.