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Per contatti e informazioni: giulio.levi@gmail.com
Recensioni
1. Venditempo (Orecchio Acerbo Editore, 2004)
2. XJ7K – dallo spazio alla casa bianca (Falzea editore, 2005)
3. Storie del 3° millennio (Campanotto editore, 2006)
4. Maghi, pesci, scarpe parlanti…in 10 storie fantastiche (Einaudi scuola, 2006)
5. 1940 / 1945 Gioele, fuga per tornare, Fatatrac editore, 2007
6. Nebbia di streghe (Falzea editore, 2008)
7. La mia mamma guarirà (Falzea editore, 2008)
8. Salviamo il mondo (Fatatrac editore, 2009)
9. Il grande pesce d’argento (Fatatrac editore, 2010)
10. Millelire (Coccole e Caccole editore, 2011)
11. “Eravamo ragazzi” (Fatatrac editore, 2014)
12. Una vita sospesa 1938-1945 (Castelvecchi editore, 2016)
13. Il regalo magico (Coccole Books 2020)
14. La straordinaria storia della penna a sfera – da László Bíró all’impero Bich

1940 / 1945 Gioele, fuga per tornare, Fatatrac editore, 2007

Giudizio della Giuria tecnica del I Premio Nazionale di letteratura per ragazzi Mariele Ventre (2008)
Uno splendido racconto – testimonianza autobiografica – basato su una precisa documentazione storica e su frammenti di memoria, un viaggio a ritroso nel tempo che l’autore, neuropsichiatra e ricercatore fiorentino da anni residente a Roma, compie trovando la forza e il coraggio di ritornare alla propria infanzia per narrare la storia della sua famiglia, con le stesse emozioni provate da bambino. Siamo negli anni bui delle famigerate leggi razziali e il racconto ci parla della continua fuga della famiglia Levi, padre pediatra, madre, e due bambini, Gioele e Silvia, prima nella casa di campagna ai limiti della città di Firenze, poi a Greve in Chianti nella “casa in campagna quasi in montagna”, e infine in Svizzera. Ci parla di lunghi, estenuanti viaggi, di campagne, di campi profughi. Ci parla di un bambino ebreo che non riesce a dare una spiegazione a tanti perché. E di due genitori che hanno saputo sempre nascondere ai loro figli una realtà terribile e drammatica. Per difendere la loro infanzia. Ci parla di amicizia e di solidarietà. Di lingue straniere che bisogna imparare. Di piccole grandi gioie e di momenti di sconforto.
La narrazione in prima persona di Giulio Levi costituisce un grande meraviglioso affresco dell’infanzia e ci mostra forse per la prima volta come i bambini ebrei nei terribili anni del fascismo e delle leggi razziali hanno vissuto l’esperienza drammatica della fuga verso la speranza. Levi ne racconta con calviniana leggerezza i pensieri, le emozioni, le voci, le parole. Racconta il tempo dell’infanzia e sa che i bambini anche nelle situazioni più difficili, trovano le parole per giocare.
E’ un racconto intenso, commovente ed emozionante che riesce talvolta perfino a farci sorridere. E ci fa pensare. Così si deve raccontare. Così si deve testimoniare la Storia.

Giudizio della giuria tecnica della XI edizione del Premio nazionale di letteratura per l’infanzia e l’adolescenza ‘Citta di Penne’ (anno 2007)
II libro di Giulio Levi, intitolato ‘1940-1945 Gioele, fuga per tornare’ (Fatatrac), è , come è scritto nel verbale della giuria tecnica, presieduta da Vincenzo Sarracino, “un racconto avvincente, di facile e scorrevole lettura, intriso del realismo che caratterizza un difficile momento del nostro paese, rovinato dal Fascismo e dalle leggi razziali contro gli Ebrei. L’autore racconta il viaggio metaforico dello svolgersi del processo formativo di due bambini, fratello e sorella. I due attraverso le difficoltà della guerra, della separazione forzata, del multiculturalismo politico e religioso, imparano la difficile arte della ‘tolleranza’, del pluralismo, in definitiva della democrazia. II testo di Levi e degno della migliore citazione sia sul piano letterario sia su quello etico, politico e pedagogico”.

Recensione di una maestra www.ilbrucalibro.it
Raccontare a un bambino cosa siano stati la persecuzione e il genocidio degli ebrei è sempre difficile. Raccontare l’orrore con l’orrore scuote, ma può allontanare. Forse, bisogna raccontarlo facendo appello ai sentimenti e alla realtà propri dei ragazzi e lasciando intuire legami con la contemporaneità, per non dimenticare il passato.
Nel breve romanzo di Giulio Levi, l’autore agisce sullo stesso terreno dei bambini: lavora sul senso di disorientamento, sulla nostalgia, sull’angoscia che nasce quando le cose accadono senza comprenderne il perché. Gioele e la sorellina sono i protagonisti di un continuo trasloco. In cinque anni si alternano facce, nomi, voci ai quali i bambini si affezionano, ma da cui poi si devono distaccare. E’ un trasloco dell’anima e dei sentimenti.
Piccoli adulti nelle illustrazioni, Gioele e la sorella Silvia rimangono bambini nella capacità di adattarsi; ma perché ad adattarsi sono i genitori, che sanno spiegare con calma, che non nascondono nulla e li accompagnano nell’accettazione del cambiamento. Come ogni adulto dovrebbe fare.
I bambini affondano radici dove possono: Gioele impara ad essere ebreo praticante, quando in Svizzera è accolto dalla famiglia Benlamìn. E quella ritualità prima incomprensibile, gli diventerà necessaria, unico appiglio lì dove si sentirà estraneo, ospite della famiglia Reichenstein, condividendo quel patrimonio di gesti e parole con una anziana donna di servizio.
Un libro che apre una finestra sulla freddezza dell’accoglienza nei campi profughi della Svizzera e fa riflettere su certa freddezza attuale, nei confronti degli immigrati che vengono in Italia. Un libro che fa riflettere sulle difficoltà di adattamento linguistico dei bambini, che è problema ancora estremamente vivo.
Bello il finale, dove le ultime parole sono stampate sull’immagine di una stanza vuota, a comunicare anche visivamente quel senso del nulla che lascia ogni conflitto e che i bambini intuiscono al termine del racconto.

Recensione di una lettrice (da www.ilbrucalibro.it)
Comincio dall’ultima pagina del libro di Giulio Levi (1940-1945 – Gioele, fuga per tornare): una frase stampata sull’immagine di una stanza vuota. E’ la stanza dove Gioele torna, dopo la fine della guerra. Dei suoi parenti non si sa più nulla; li ha perduti nei campi di concentramento. Ma i due fratelli ebrei protagonisti, degli orrori della guerra, dei massacri e delle umiliazioni sanno poco o niente. Quello che conoscono è la fatica dei continui spostamenti, il disorientamento nel non capire il perché delle cose, la nostalgia dei distacchi. Sono piccoli adulti, come anche le illustrazioni suggeriscono, pieni di responsabilità che obbediscono ad una mamma infaticabile che fa e disfa valigie…
La casa aspettava le voci dei bambini perché potesse tornare a vivere, scoperchiando la cesta dei giocattoli.

SHALOM, gennaio 2008, pag. 25
‘1940-1945 Gioele, fuga per tornare’

Una storia di grandi raccontata per i più piccoli
II romanzo di Giulio Levi spiega che, anche nella tragedia della guerra e della deportazione, c’e una via di uscita
Mi chiamo Gioele e all’inizio di questa storia avevo tre anni”: inizia cosi il bel libro di Giulio Levi come i precedenti diretto ai bambini ma questa volta non si tratta di un racconto di fantasia: Gioele infatti e il nome ebraico di Levi e la storia e quella di una “fuga per tornare”. “Nel luglio dell’anno 1940 – prose¬gue l’esordio di Gioele – per la prima volta in vita mia cambiai casa”, ed è il primo di una lunga serie di trasferimenti che si concludono con il ritorno fortunato al Bandino, poco fuori Firenze, dopo cinque anni e undici “spostamenti di letto, pagliaricci compresi!”.
Giulio Levi vive a Roma (omissis) e “Fuga per tornare” è il primo [libro] autobiografico fin nella dedica: “alla memoria di mio padre Sergio (1910-1966) che ai figli ha nascosto il suo dolore”.
Dopo i primi mesi nella nuova casa – prosegue la storia di Gioele – la vita cambia e il libro racconta l’allontanarsi, cauto, da Firenze. Poi la fuga, sempre più convulsa e precipitosa, la necessita di nascondersi in campagna affidandosi alla disponibilità di sconosciuti, la paura, poi il viaggio a Milano e, a piedi di notte, l’arrivo in Svizzera. E per Gioele, la sorellina Silvia, la mamma e il papà inizia un nuovo capitolo: il rigore dei campi di raccolta – “tre mesi, tre campi, uno nella Svizzera italiana, due in quella tedesca” – le famiglie separate, l’impossibilita di mantenersi con il proprio lavoro e l’affidamento dei bambini a famiglie sconosciute. “Bambini, (…) tra qualche giorno sarete accolti in una famiglia svizzera”, ma l’annuncio della mamma non rassicura Gioele: “La notizia mi colse impreparato e a dire la verità non mi pareva bellissima. Come? Io in una famiglia e Silvia in un’altra e per di più in un’altra città, lontani da papà e dalla mamma?”. Così a Gioele capita di essere accolto a Lucerna dalla ospitale famiglia Benlamìn, ebrei osservanti che parlano solo tedesco: “Cara mamma credo che stasera mangerò pane e burro e marmellata – scrive Gioele in una lettera – la signora non capisce nemmeno una parola italiana e io non so proprio come fare. Però nei letti ci sono le lenzuola. (…)”• Giulio Levi riporta le lettere di Gioele alla mamma con le medesime inesattezze della stesura originale, insieme a quelle delle famiglie affidatarie che tentano di rassicurare i genitori.
Ma i commenti di Gioele non raccontano solo le vicende della sua vita quotidiana descrivono anche, con vivacità e ingenuità, le tappe della vicenda bellica come potevano essere comprese da un bambino. La storia prosegue con un cambio di famiglia, sempre ebraica ma non più osservante, che lo relega rapidamente al ruolo di “bambino di servizio”. Nelle molte tragedie che la Shoah ha causato ve ne è una su cui poco si è riflettuto e che pure continua ad avere grandi ripercussioni: quanto hanno patito e perduto “i bambini della Shoah” per ciò che riguarda la loro formazione ebraica? E quanto i loro figli? Quante abitudini si sono interrotte, consuetudini disperse e mai riprese, sopraffatti come sono stati – “dopo” – loro e le loro famiglie, dalla necessità di ricostruirsi una vita? E’ solo grazie alla collaborazione affettuosa di Ingrid, la tata, che Gioele mantiene un legame con le regole ebraiche imparate nella famiglia. Poi giunse la fine della guerra e il viaggio di rientro a Firenze nell’Italia devastata dalla guerra e il ritorno a casa. “Un giorno chiesi a papà – conclude Giulio Levi – ma i nonni Levi e lo zio Aldo e lo zio Leone quando tornano dal loro viaggio?” “Non lo so, non lo so… speriamo presto. Adesso vieni, andiamo a vedere se ci sono dei fichi maturi sull’albero dei verdini”. Io non lo immaginavo, ma era una bugia. Da poche settimane aveva saputo che non c’era più niente da sperare”. E’ un lieto fine che Levi regala al piccolo Gioele, tornato al suo gatto e al suo giardino.
Resta un po’ di magia: l’incantesimo di una Storia, con la S minuscola, quella delle vicende personali, del pudore e delle paure dei piccoli. E la Storia con la S maiuscola, quella dei grandi eventi e delle tragedie collettive, che si intreccia a quella privata e ne segna e governa le vite. In “Fuga per tornare” i ragazzi leggono un italiano ferocemente limpido per linguaggio e costruzione, per attenzione ai particolari e ai bambini: il dramma non viene mai esibito ed una fine, lieta, anche se molto amara, consente anche ai piccoli lettori di intuire una via d’uscita alla tragedia.
Lia Tagliacozzo

FIRENZE EBRAICA anno 20, N. 5
“1940- 1945, Gioele, fuga per tornare” è il suo [di Giulio Levi] ultimo lavoro per i ragazzi, diverso da tutti gli altri precedenti, perché in questo Giulio Levi racconta le sue esperienze di bambino di sei anni in fuga con la famiglia per sfuggire alle persecuzioni razziali. Non c’è più la pura fantasia che apre ai ragazzi gli orizzonti della libertà, ma c’e la realtà cruda dell’oppressione, della fuga e della separazione vissuta con la mente di un bambino, non sempre in grado di darsi tutte le risposte giuste, ma certamente colpito nel profondo del suo animo, insie-me al babbo, alla mamma e alla sorella, particolarmente da quel terribile anno che va dal 1944 al 1945, in cui si rifugiano in Svizzera.
Con un linguaggio molto semplice e didascalico, adatto anche ai giovanissimi lettori, si fa la storia di quegli anni ter-ribili, del fascismo, della guerra, delle leggi razziali, dell’esclusione dalla scuola e delle persecuzioni. Dopo le peripezie per la fuga dall’Italia, si racconta l’accoglienza nei vari campi svizzeri, vere e proprie caserme, con tutte le penose limi-tazioni e privazioni, fino alla separazio-ne di Giulio dai genitori e dalla sorella quando va a stare presso alcune famiglie di ebrei svizzeri. “Salutai anch’io, ma avevo i lucciconi agli occhi. Lasciavo una realtà che conoscevo e che, anche se non particolarmente bella, vivevo insieme alla mia famiglia, e venivo proiettato lontano, in un mondo di sconosciuti, che non riuscivo nemmeno a figurarmi.” Questo bambino di sei anni, che va a stare presso degli estranei e che da quel momento incontra i genitori solo saltua-riamente, comincia a scrivere le sue lettere, spesso ingenue e piene di errori, per mantenere il contatto con la famiglia.
Ma piano piano cominciano ad arrivare buone notizie; gli alleati avanzano. Anche questo anno passa e si arriva finalmente al ricongiungimento e al ritorno in Italia e a Firenze, a rivedere la casa, a incontrare i conoscenti e gli amici, a riprendere lentamente la vita interrotta. “I1 nostro lungo viaggio era finito e ricominciava la vita normale. Non c’erano più le leggi contro gli ebrei, c’erano solo i vuoti che quelle leggi avevano lasciato in tante famiglie, compresa la nostra.”
E rimanevano impressi i segni che erano stati stampati nell’animo di tutti e che, come è stato detto sempre per tutti coloro che hanno vissuto esperienze simili, hanno in qualche modo condizionato le loro esistenze fino al momento di riprendere “la vita normale”.
Renzo Bandinelli